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Anatomia del miracolo – Alessandra Celesia

Napoli, ai giorni nostri. Tre donne molto diverse tra loro si preparano per la processione della Madonna dell’Arco, culto venerato da migliaia di devoti, che, nella speranza di un miracolo, strisciano, piangono, urlano al cospetto della scultura raffigurante la “santa con la cicatrice blu sulla guancia sinistra”. Fabiana è una transessuale che ama la notte e detesta il giorno, amorevole, materna e burrosa, cerca di allevare la nipote dodicenne Martina, ricordando con lei le giornate passate al mare, tra tuffi e pentolate di fagioli, e sognando la futura fuga a Parigi. Sue è di origine coreana ed è una pianista. Si trova a Napoli perché stanca dell’ingannevole New York, dove la frenetica corsa al successo scalza presto la più lenta ricerca dell’arte. Si trova a Napoli per (ri)trovare il senso profondo della musica (“Ogni animale ha un suo canto, solo l’essere umano non ce l’ha. Io qui voglio trovare il mio canto”). Giusy, trent’anni passati sulla sedia a rotelle, vive di fronte al santuario della Madonna dell’Arco, il cui sguardo la accompagna costantemente in tutte le stanze della sua esistenza. Ma Giusy non ha mai ricevuto il miracolo tanto atteso, e dunque, nonostante la Madonna sia per lei una sorta di nonna, in lei Giusy non crede. Da antropologa, va però alla ricerca di coloro che credono, per comprendere così innanzitutto se stessa e la sua non-fede.

Le tre protagoniste non si conoscono e sono testimoni di tre storie differenti, ma vengono trattate allo stesso modo dalla macchina da presa, che le (in)segue nelle loro peregrinazioni per gli spazi cittadini (Sue cammina timidamente per le viuzze sconosciute; Giusy sfreccia in università o in chiesa, spinta dalla professoressa o dal prete; Fabiana sale e scende per gli appartamenti dei palazzi). Il taglio insolito delle inquadrature, di schiena, ci porta ad un’identificazione solo parziale del nostro sguardo con quello delle protagoniste, in una efficace e, in questo caso, doverosa identificazione solo a metà (la giusta distanza che ci consente di guardare ciò che loro guardano ma non essere assorbiti da tale visione). Queste donne noi le guardiamo però poi anche in faccia: il quadro di schiena si accompagna infatti ad un’ulteriore originale visione di profilo, leggermente dall’alto, dei visi delle protagoniste, colte nel naturale svolgimento delle loro attività (rispettivamente suonare, parlare, fumare), conferendo così all’intera opera il tocco naturalistico che il genere documentaristico esige.

Presentato al Festival di Locarno e al Festival dei Popoli, il film ha il pregio di mostrare un mondo, accostandosi ad esso con sguardo indagatore ma non invadente, curioso ma non grottesco, rivelatore ma non giudicante, riuscendo così a portare sullo schermo un autentico squarcio di vita.

 

di Carolina Zimara

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