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I miei giorni più belli – Arnaud Desplechin

53331« Je me souviens… je me souviens… je me souviens…»: attraverso questa ipnotica ripetizione i ricordi evocati dal titolo originale (Trois souvenirs de ma jeunesse) de I miei giorni più belli sono così richiamati alla memoria per dipanarsi, in un crescendo di complessità (e lunghezza) lungo il film.

Il personaggio di Paul Dédalus, in parte autobiografico, rammenta l’Antoine Doinel di François Truffaut e lo Stephen Dedalus di James Joyce ed è caro a Desplechin che aveva già scelto di narrarne le gesta in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) e Racconto di Natale. Qui ritroviamo Dédalus, moderno Ulisse, dopo molti anni di lavoro trascorsi altrove fare ritorno in Francia dove è subito costretto a riflettere sulla propria identità che risulta appartenere ad un uomo morto. Un’identità frammentata, persa o mai trovata, recuperata. “Allora, chi sei tu? Non lo so più”: l’interrogatorio dell’agente della DGSE offre il pretesto per scatenare il flusso inarrestabile di souvenirs. Infanzia, Russia, Esther e Epilogo sono i capitoli contenitori dei ricordi, da cui si aprono a cascata numerosi “cassetti”, che ci mostrano momenti della vita di Paul: bambino in un contesto familiare non semplice, nella periferica Roubaix, poi adolescente immischiato in un circuito illegale di rimpatrio di ebrei russi, giovane uomo studente di antropologia a Parigi che si imbatte nell’amore della sua vita, quello per la complicata ed “eccezionale” Esther. Nel finale, poi, il cerchio sembra chiudersi (“Tu sei quello vero”).

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Il film è un fiume in piena dal ritmo incalzante che disorienta; proprio come in un sogno, alcune parti risultano mancanti o si scoprono pian piano, creando un effetto segmentato e non convenzionale. Pellicola densa di spunti mitologici (per primo quello insito nel nome del protagonista), filosofici, artistici, letterari. Desplechin ha totale padronanza del mezzo cinematografico che traduce in dialoghi arguti, nell’impiego di voci narranti che cullano lo spettatore, nel proporre inquadrature insolite e sguardi in camera che spiazzano ma attirano, nell’utilizzo dei mascherini ad iride che, delimitando l’immagine ripresa da un cerchio, danno la sensazione di star spiando nell’intimo i vari Paul che si susseguono. Uno stile originale, vivace, sempre attento e un montaggio funzionale all’evocazione degli stati d’animo legati ad ogni ricordo riaffiorato (come ad esempio l’usufruire degli split screen – schermo diviso – per introdurre in maniera fresca e dinamica la fase post adolescenziale di Paul). Ogni scena è pregna di significati e apre spiragli nell’interiorità dei personaggi, resi perfettamente nella loro ricchezza e unicità, anche grazie alla bravura dei giovani attori protagonisti.

Il film, in sintesi, è la storia di un uomo che deve allontanarsi per poter ritornare e ritrovarsi, deve andare indietro per poter guardare avanti e lo fa, con le parole del (non a caso) antropologo Clyde Kluckhohn, attraverso “il giro più lungo che è spesso la via più breve per tornare a casa”.

di Loredana Iannizzi

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