El Abrazo de la serpiente – Ciro Guerra


Come sostiene l’antropologo brasiliano Viveiros de Castro in Metafisiche Cannibali (in uscita a breve in traduzione italiana), il discorso antropologico dovrebbe cercare di reperire, nello studio delle popolazioni non occidentali, una vera e propria metafisica. Quando, in El abrazo de la serpiente, ultimo lavoro del colombiano Ciro Guerra, l’anziano sciamano Karakamate sostiene che il Rio delle Amazzoni è un anaconda poiché “è chiaro, nei nostri sogni. È reale. Molto più reale della tua realtà”, egli non metaforizza affatto, ma presenta un sistema di pensiero che fa del sogno una struttura conoscitiva primaria.

In El abrazo de la serpiente si intrecciano due storie realmente accadute, a distanza di circa quarant’anni l’una dall’altra: un etnografo tedesco prima e un biologo americano poi si avventurano nella parte colombiana dell’Amazzonia alla ricerca di una fantomatica pianta sacra, la Yakruna, dotata di poteri curativi. Ad accompagnarli è ogni volta l’enigmatico sciamano Karakamate, ultimo superstite della sua popolazione.

Il film non è né un road movie né un saggio etnografico per immagini: si tratta, invece, di un’indagine sulla violenza dell’incontro culturale, sull’inestirpabile rapporto tra uomo e spazio e, più in profondità, sui significati del reale. Ciro Guerra riesce a scrollarsi di dosso una serie di ingombranti eredità (l’Herzog di Aguirre, furore di Dio e Fitzcarraldo nonché il Coppola di Apocalyspe Now), raggiungendo un’invidiabile originalità estetica: il bianco e nero, splendido perché misurato (e chiaroscurale), accompagnato da un’attentissima manipolazione del sonoro, trasporta il racconto verso una silenziosa poetica della terra che ci invita a riflettere sul modo in cui il pensiero umano è già da sempre avviluppato nello spazio che lo circonda, costituendone l’eco. Tale poetica riesce perché il film supera la dicotomia – tutta interna all’occidente – tra il mito del buon selvaggio e quello della superiorità occidentale. Pur nell’inevitabile e esplicita denuncia del tragico sfruttamento da parte dell’uomo bianco, legato alla micidiale connessione tra interessi economici, politici e religiosi, il film non divide infatti sommariamente bene e male, ma li riarticola in un contesto in cui i valori morali si incarnano nella circostanza (perché curare un uomo bianco “distruttore”?).

A guidare il film è poi il tema del doppio, esposto soprattutto dal mito del Chullachaqui, secondo cui ogni uomo ha un sosia “vuoto” di se stesso, virtuale, che gira eternamente per la terra. Tutto, nel film sembra duale, se non destinato a ripetersi, sulla linea di un sottile fatalismo: l’etnografo per Karamakate è due uomini insieme, così come, secondo lo sciamano, la storia dello scontro con “l’altro” è destinata a ripetersi, dal “tempo senza tempo” nel quale l’anaconda ha affrontato il giaguaro a oggi.

El abrazo de la serpiente è uno dei migliori film del 2016. Al di là dell’evidente portata politica e conoscitiva della vicenda, Ciro Guerra sembra voler interrogare da vicino l’ombra gettata da una tradizione razionalistica che non pare in grado di rispondere alle più pressanti esigenze del contemporaneo. Se il rapporto tra realtà, percezione e sogno ha costituito una parte importante della nostra cultura (basti pensare a Jung o a Castaneda, ma valga per tutti l’utilizzo nel film de La creazione di Haydn), l’incontro con il pensiero amerindiano può allora aiutarci a riattivare la capacità di ascoltare, osservare e, perché no, ritracciare il mondo.

di Giulio Piatti

*Errata corrige – si segnala, nella scheda del film distribuita in sala, il refuso relativo al film “Apocalypse Now” diretto, ovviamente, da Francis Ford Coppola e non, come erroneamente segnalato, da Stanley Kubrick.