Tutto è storia.
Billy Wilder ha sempre detto di avere la “necessità della narrazione” dentro di sé, come motore per il proprio lavoro. Doveva raccontare, in-scenare, e lo faceva magistralmente. Ad un’ archeologia dell’immagine, si potrebbe dire, preferiva una fenomenologia dell’evento (se si concepisce un film come un combinato di immagini ed eventi, o di eventi nelle immagini, in Wilder queste sono sempre delle subordinate funzionali al contenuto semantico della principale: l’evento narrabile).
Giorni perduti fornisce in questo senso il materiale ideale per la progettazione di questa storia, questo evento appunto, che si struttura attraverso una serie di cerchi che s’intersecano tra loro (non lascio libero sfogo ad una vaga ossessione ermeneutica: la scena delle varie impronte circolari lasciate dai bicchieri di whisky consente quest’interpretazione). Questi cerchi, circoli viziosi come opportunamente li chiama il protagonista, non sono altro che i sotto-eventi che vanno a comporre e completare la base evenenziale che sostiene tutta l’impalcatura, l’ evento 1° della narrazione: lo squarcio biografico d’un uomo. Non di un alcolista, ma di un uomo prima di tutto, che, per una mera necessità narrativa interna (la narrazione costituita dal farsi della vita di Don, attraverso un ostacolo), ed esterna (la narrazione filmica attraverso cui passa la narrazione che Don fa della sua vita) incappa in questo fatto – l’ostacolo – che ha però il sapore della contingenza: il suo rapporto con l’alcool.
Banalmente, è una questione di messa in scena, e di come essa si da, come rende agli occhi dello spettatore. Cosa si nota, guardando un po’ in profondità: il protagonista della storia è uno scrittore, non a caso, una persona la cui visione sugli avvenimenti della vita è inevitabilmente impostata su un certo registro psicologico che da loro forma. Questo registro dunque non è in ultima istanza quello dell’alcolista, del malato, del disadattato sociale, del fratello incompreso o del fidanzato innamorato ma sbandato e assente(i vari ruoli che Don assume). Tutto ciò funge solo da corollario. Il registro è essenzialmente quello di colui che narra; tutto è storia per colui che la vive e la racconta allo stesso tempo, è storia vissuta più che vita vissuta. Lo vediamo nel film: che cosa fa in fondo Don? Beve, naturalmente (e stiamo alle immagini), ma al di là della superficie, al di là del gesto (filmico, narrativo, biografico), al di là del pre-testo (sembra appropriato scrivere questa parola così: il significato etimologico incide su quello comune in questo caso) del bere egli fa qualcosa di fondamentale, si potrebbe quasi dire di più importante: racconta; di sé, del suo passato, del suo futuro in qualche modo, e soprattutto del suo presente e di ciò che del presente è più pressante, più decisivo (ma anche eminentemente più narrabile): il suo presente da alcolista. In questo strano meccanismo sembra prender forma la concezione berkeleiana dell’esse est percipi; se Don non desse senso, voce all’esperienza, raccontandola, testimoniandola, questa in qualche maniera sarebbe persa, sfuocata, inesistente. Che ne sarebbe della “resa” filmica se l‘alcolismo del protagonista fosse fissato e definito solo da come esso è agito? Rimarrebbero in piedi poche scene: i momenti in cui beve in solitudine, quindi senza parlare, cioè senza mostrare, senza designare (e infatti sono rare), e la scena del delirio (potenza iconica dell’immagine contro quella simbolica della parola).
Insomma, il tutto sembra dare l’impressione che alla base dell’intricarsi della vicenda vi sia, come motivo propulsore, una volontà di narrazione che fa coincidere l’esperienza dell’alcolismo con il discorso su di esso, un discorso i cui segmenti che lo compongono paiono già aprioristicamente organizzati e disposti ad hoc: un passato, che non funge da apparato eziologico del soggetto alcolista ma solo da collante temporale, anello di congiunzione tra lui e la sua fidanzata – più che tra lui e il suo “vizio” – un presente, che mette in scena ciò che dal vizio insorge: mai una ricerca di ciò che ha provocato il vizio, solo la rappresentazione di ciò che esso provoca; un futuro, evocato pensato progettato (=narrato) sin da subito dal protagonista, causa efficiente e finale allo stesso tempo, che conosce fin dall’inizio la fine della sua storia, storia che comincia con uomo che si definisce scrittore (prima che alcolista) e finisce con uomo che fa lo scrittore…E’, in fondo, la ricostruzione un po’ elaborata d’una scena significativa del film: due bottiglie (quella dell’alcolista e quella dello scrittore) che tentano invano di riempire lo stesso bicchiere, a cui sono vincolate (quello della sua vita, o meglio, della sua storia).
Enrico M. Zimara