La predilezione nei confronti delle eroine, nutrita da Martin Provost, trova espressione anche nel suo ultimo lungometraggio che offre il ritratto di due splendide e complesse donne agli antipodi che a fatica cercano di recuperare (o creare?) un rapporto contrastato e interrotto bruscamente tanti anni prima. I destini della rigorosa e diligente levatrice Claire (la sage femme del titolo originale del film, omaggio del regista all’ostetrica che gli salvò la vita donandogli il proprio sangue) e della dirompente Béatrice, unite nel passato da un uomo, padre di una e amante dell’altra – dopo un brusco distacco che ha lasciato una scia di domande, segreti, sofferenze e vuoti dietro di sé – tornano ad incrociarsi. Ora la malattia sembra non concedere più tempo a Béatrice, costringendola a cambiar rotta e a ricercare affetti sinceri, irrompendo nell’esistenza regolare di Claire che, pur essendo in contatto quotidiano con la vita che nasce, ha perso qualsiasi spinta vitale. Contrariamente, Béatrice, dedita a fumo, alcol, gioco e, un tempo, agli uomini, ormai vicina alla morte riesce ancora (e si rammarica per non poterlo più fare come vorrebbe) a sorridere, a godere dei piaceri della vita e ad esaltare la propria femminilità. Frot e Deneuve, encomiabili capisaldi del cinema d’oltralpe, interpretano con profondità l’essenza delle protagoniste, sorrette da un look che ne riflette nei minimi dettagli i caratteri e i modi di essere nonché il percorso di cambiamento e di influenza reciproca che avviene nel corso della storia.
La sceneggiatura è realistica (Provost, pur di filmare vere nascite, ha girato in Belgio, poiché in Francia la legge vieta di riprendere bimbi sotto i tre mesi di età) ma costellata di elementi simbolici (la Senna come l’Acheronte trasportatrice di morte, il giardino e l’orto come luoghi fisici dove abbandonare le proprie rigidità e ricercare la pace, oggetti quali foulard, anello e rossetto che si “trasferiscono” da Béatrice a Claire per simboleggiare i mutamenti che l’una ha innescato nell’altra) e spunti che sottolineano i cambiamenti del mondo odierno dove accoglienti reparti di maternità chiudono a favore di asettiche “cliniche-fabbriche” di neonati e gli uomini ambiscono a divenire ostetrici.
In Quello che so di lei la professione di Claire è pretesto e metafora per parlare di nascite (reali), rinascite (figurate) e di maternità (negata, mancata, elogiata), senza tralasciare temi più cupi come la morte, la malattia e la solitudine servendosi di uno humor sottile e pungente. In un altalenarsi di distacchi e avvicinamenti, le due donne instaurano un inaspettato legame di filiazione. Quei nodi irrisolti, che tenevano a distanza la serenità di entrambe, si sciolgono mostrandoci un percorso di liberazione dalle catene di sofferenze ereditate dal passato, possibile solo attraverso il perdono, aprendosi con generosità agli altri e a se stessi, accettando quelle fragilità che, in un modo o nell’altro, segnano e contemporaneamente fortificano la vita di ogni persona.
di Loredana Iannizzi