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Frantz – François Ozon

53456Con Frantz, Ozon riesce a ripercorrere tanto cinema del passato, al contrario di altri suoi capolavori, per reinventarsi e suggerire il presente, attraversando la storia, l’arte e la letteratura. Basandosi sulla pièce teatrale di Maurice Rostand, L’homme que j’ai tué (1925), il film si adatta liberamente al melodramma cinematografico di Ernst Lubitsch, L’uomo che ho ucciso del 1932. Pur rimanedo fedele a Lubitsch e in particolare al classico, elegante e così rigoroso bianco e nero e citando diverse scene, il regista sposta nella seconda parte il fulcro della storia, dal punto di vista di Adrien a quello di Anna. Dopo la fine della prima guerra mondiale, Anna si reca ogni giorno alla tomba di Frantz, il suo promesso sposo, caduto al fronte in Francia. Adrien, un ragazzo francese, porta anche lui dei fiori sulla stessa tomba. L’uomo confesserà di essere un amico di Frantz e il suo iniziale svelamento sarà salvifico per la donna e la famiglia di Frantz, ma poi risulterà sempre più ambiguo ed illusorio fino a che Anna, consapevole, dovrà perdonare l’imperdonabile e affronterà da sola la cruda realtà.

Quest’ambiguità, che mostra l’inquietudine e l’incertezza di tutta la narrazione, pervade anche lo stile e il modo filmico evocato da Ozon: l’oltretomba ha il suo momento chiave nella sequenza al cimitero di notte dove si recita Chanson d’automne, celebre poesia di Paul Verlaine usata anche da Radio Londra come messaggio codificato per lo sbarco in Normandia. Le ombre e nere silhouette rimandano al freddo della morte di un’intera generazione in una guerra priva di senso ma somigliano anche ad immagini del nostro contesto attuale: gruppi di terroristi fanatici e a un mondo povero, tedesco e non, che attende da tempo una politica lungimirante da parte di governi e istituzioni finanziarie dei paesi ricchi.

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Tutte queste figure nere e sottili vengono però illuminate da improvvisi colori che fioriscono ed esprimono ricordi veritieri, presunti o alcune volte il potenziale nascosto di una situazione per poi dissolversi ed appassire con una velocità rapsodica. Grazie anche alla profondità emozionale e intellettiva di Paula Beer, finora sconosciuta e definita giovane e bella – il camaleontico Ozon riesce così ad immergerci in un’epoca distante ormai un secolo dalla nostra rendendo in qualche modo senza tempo una vicenda universale, incentrata sull’intricata storia dei protagonisti ma anche su temi sempre attuali come il sospetto, il rimorso, l’elaborazione del lutto e la necessità di perdonare. La scomparsa di Frantz diventa, per Anna e Adrien, una comune occasione per l’espiazione delle proprie colpe e per ricostruire sopra le macerie dei rimorsi e dei rimpianti. Dalla morte può così nascere una nuova vita, e persino un dipinto lugubre e inquietante come Le Suicidé di Manet può diventare il simbolo di una rinascita spirituale. Forse questo non è il film più coinvolgente del regista francese, ma sicuramente è un raffinato affresco storico sull’amore per salvarsi e sulla menzogna per il bene altrui, che si insinua lentamente nella mente dello spettatore, efficace nel delineare vizi e virtù dell’animo umano.

di Alexine Dayné

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