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Happy End – Michael Haneke

Dopo il ritratto doloroso di un’anziana coppia in Amour, Haneke torna a proporci la sua visione sempre più pessimistica del presente. Non facciamoci prendere in giro dal titolo: non c’è nessun lieto fine, ma il finale è memorabile. E anche qui, la morte è ovunque, dentro la vita di tutti i giorni e dentro i rapporti umani, quelli familiari e quelli economici. Non è mai una pulsione tragica ma è una vera e propria condizione ontologica. Haneke non ci mostra mai il momento drammatico che dunque diventa incorporeo, si ferma prima e così si manifesta ancora più potente.

Happy End, come Niente da nascondere, mostra come il filmare sia senza significato e proprio l’inizio e la fine del film, girati con l’iphone, ne tratteggiano l’essenza. Il soggetto dello smartphone è Eve, la più giovane, fredda della famiglia altoborghese Laurent che vive a Calais, simbolo di questo nuovo millennio con uno dei più grandi centri d’accoglienza per migranti d’Europa. È uno sguardo quello del mondo della ragazza che non osserva i fatti passivamente, ma in un certo senso li determina e ne è responsabile.  Nemmeno la madre e il criceto – parte dell’universo affettivo di un’adolescente – rimangono.

Pur tornando a ragionare sull’invadenza dei nuovi dispositivi visuali che creano anestesia delle percezioni, i due protagonisti, Georges e Anne, sono la prosecuzione ideale di Amour: Jean-Louis Trintignant, colui che prima si occupava della moglie e che qui ha demenza senile e Isabelle Huppert, attrice-feticcio del regista. Anne, figlia del patriarca, stanco di vivere e di vedere, si affanna a salvare l’azienda edile. Al suo fianco, troviamo il figlio problematico, il fratello medico Thomas che tradisce Anais, la sua seconda moglie, e ripara gli errori fatti alla figlia avuta nel primo matrimonio, Eve appunto. La nipote e il nonno sembrano gli unici che riescono davvero a percepire il disincanto brutale del mondo che li circonda. Eve ha consapevolezza di quanto accade e ha le chiavi per accedere anche a ciò che le dovrebbe essere precluso ma questo aumenta il suo distacco.

Con immagini crude, quasi senza commento musicale, tra macchina fissa e lunghi piano-sequenza, si racconta la decadenza della ricca borghesia affetta dai mali dell’individualismo, della miopia che non la fa andare alla considerazione di altro se non del proprio interesse.

Stavolta Haneke resta in superficie, senza mai farci realizzare davvero quale sia il reale proposito del suo filmare: l’occhio che uccide, diventa quello di una gioventù che, anziché eliminare i propri padri, si limita a seguirne la caduta e che si allontana per condividere meglio. I protagonisti non si capiscono, non si parlano e agiscono per secondi fini . Per questo il regista riprende le situazioni a distanza, lasciando la macchina lontano dai personaggi e i dialoghi nell’indefinito. Come se oltre a non vederla, la morte, sia impossibile anche sentirla.

di Alexine Dayné

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