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La ragazza senza nome – Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne

La sequenza di apertura di questo film è splendida per la sua apparentemente innocua semplicità: la protagonista è una giovane donna che sta a sentire quello che uno ha dentro. Mette la giusta distanza tra sé e gli altri, ma non così tanta da impedire un contatto diretto: Jenny Davin (Adèle Haenel) è una giovane dottoressa e tecnicamente sta compiendo il gesto dell’ascoltazione. Mi sembra, questa, una metafora dell’idea di cinema che sviluppano i fratelli Dardenne nel film “La ragazza senza nome”: un cinema d’ascoltazione. Ascoltano come sta il cuore dell’Europa e fanno una diagnosi, che è la cosa più importante, e lo fanno con stile: togliere tutto (o forse molto) affinché quel poco che resta risuoni come un fragore. La protagonista, infatti, incarna perfettamente il punto di vista dei registi belgi che, tenendosi alla loro nota giusta distanza (formale), osservano (ascoltano), attraverso lo straordinario ricevitore direzionale di immagini e suoni che è il cinema, le vicende della protagonista che a sua volta ricerca la direzione di provenienza dei suoni sotterranei della sua coscienza (la sua morale) messa ingiustamente a dura prova dal sottile filo di trama dai tratti del genere giallo.

È la fine di una faticosa giornata di lavoro e Jenny è nel suo studio medico di un sobborgo di Liegi con il suo giovane stagista Julian (Olivier Bonnaud). L’orario di apertura è terminato ma qualcuno suona comunque alla porta: la dottoressa si impone e ordina di non aprire. Questa scelta inconsapevolmente sfortunata, anche se legittima, sarà l’episodio che mette in moto la trama: l’indomani Jenny verrà portata a conoscenza da parte della Polizia del fatto che la persona che aveva suonato alla sua porta è una donna trovata poi morta per incidente o per omicidio poco distante. Da quel momento la dottoressa cede al senso di colpa e si avventura alla ricerca di una verità possibile, o forse solo più sopportabile. Al centro della vicenda c’è il corpo della donna, crocevia direzionale di senso: la protagonista è metafora sia dell’uomo contemporaneo come individuo, isolato e fragile, che del corpo come luogo dove risiedono le risposte.

Lo spettatore è posto davanti alle proprie deboli convinzioni rispetto alle zone grigie del concetto di morale: come la protagonista così lo spettatore, anch’esso immerso nella medesima civiltà, fragile nei suoi assunti di base, che riversa sul singolo individuo i fallimenti dell’epoca contemporanea incapace di fornire risposte comuni adeguate. Ecco perché la protagonista cerca una ragazza senza nome: cerca se stessa, cerca di dare un nuovo nome alla propria identità minata. Come Odisseo (il “Nessuno” di Polifemo), Jenny è “odiata dai suoi nemici” (il film è pur sempre un giallo) poiché desidera ed è mossa dal coraggio e dalla curiosità oltre che dalla disperazione. “La fille inconnue” del titolo originale è Jenny: una non ri-conosciuta da se stessa dopo il peso del senso di colpa, fardello doppio poiché figlio di una morale ampiamente relativa. D’altra parte siamo nel cuore di un’Europa ferita e fragile forse proprio perché colpevole d’indifferenza. Jenny però non accetta di sentirsi colpevole. Vuole il cambiamento ma dipende solo da se stessa: ricostruire l’identità etica e morale è grazie a singole risposte (europee) da singoli individui (europei).

di Alessio Zemoz

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