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omicidio al cairo

Omicidio al Cairo – Tarik Saleh

In Omicidio al Cairo (The Nile Hilton Incident), tra i vincitori del Sundance 2017, Tarik Saleh, regista svedese di origini egiziane, già collaboratore del ‘nostro’ Erik Gandini, romanza e trasporta in Egitto, nel periodo immediatamente precedente la Primavera araba, un fatto realmente accaduto a Dubai una decina di anni fa: si tratta del misterioso assassino, in un hotel di lusso, di una nota cantante. A occuparsi del caso – che vedremo avere risvolti etici e politici di tutto rilievo – è Noredin, comandante (e in seguito colonnello) di un corpo di polizia segnato da una corruzione endemica e da un’evidente collusione con il potere centrale.

È proprio la figura di Noredin (interpretato da Fares Fares, visto in Zero Dark Thirsty e La comune) a stagliarsi con una certa forza nell’impianto narrativo di questo eccentrico noir politico: non si tratta né di una figura eroica né, tantomeno, di un outsider, quanto di un personaggio perfettamente inserito nello squallido ambiente della polizia che però finisce con l’interessarsi sempre di più al caso della ragazza. Le indagini, che la polizia – visto il coinvolgimento di un uomo politico di primo piano – vorrebbe al più presto archiviate, vengono allora portate avanti dal poliziotto, che arriverà a scontrarsi con un ‘establishment’ che mescola indolenza e anarchia, violenza e familismo, in quel clima di generale irrequietezza popolare (soprattutto giovanile) che porterà ai sommovimenti del 2011. 

Saleh esplora insomma i consueti rapporti tra corruzione e politica, gli intrighi del potere che abitano gli squallidi e spesso claustrofobici ambienti di una città del Cairo livida, quasi sempre ripresa in notturna: rovesciando i canoni del film noir, tuttavia, il regista non dà grande attenzione alle ‘giunture’ del plot, spesso fin troppo prevedibili quando non inutilmente confuse, ma pare concentrarsi, prima di tutto, sul valore metaforico del caso, ossia in primo luogo sul suo risuonare negli atteggiamenti dei protagonisti (dai dilemmi che abitano il comandante a quelli presenti nell’unica – e per ciò stesso ricercatissima – testimone oculare, una giovane cameriera sudanese senza permesso di soggiorno) e in secondo luogo sul reciproco inseguirsi della cronaca locale con i più ampi movimenti della Storia. 

La cifra del film, che a tratti ricorda, pur a debita distanza, tanto il Polanski di Chinatown quanto il Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, è quella di una profonda amarezza: l’impossibilità di combattere un sistema clientelare diviene infatti, nel rovesciamento gattopardesco presente nel finale, l’impossibilità di un futuro davvero differente, di una speranza che non sia già da sempre infettata (difficile non pensare qui anche all’omicidio di Giulio Regeni). Il mondo cupo, anche quando gioiosamente rivoluzionario, che Saleh ci restituisce, con una grande cura per i dettagli (tanto sonori quanto visivi) diviene dunque una denuncia impietosa, radicale. 

di Giulio Piatti

 

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