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Passeri – Runar Runarsson

Ari ha sedici anni e un taglio di capelli alla Justin Bieber, ma è tutt’altro che un cantante pop statunitense. Non ride mai ed è profondamente infelice e arrabbiato con i genitori: con la madre perché è partita con il suo nuovo compagno in Uganda e con il padre, uomo scapestrato e inaffidabile, presso il quale è costretto, suo malgrado, a trasferirsi. Le uniche briciole di conforto Ari sembra raccoglierle nella casa rossa della nonna paterna, affettuosa e allegra come forse nessuno in quel desolato paese a nord dell’Islanda, accecato ininterrottamente dalla luce del sole, ma popolato da individui perlopiù cupi, spesso violenti o depressi.

Passeri parla innanzitutto del passaggio di un adolescente all’età adulta e di come, in definitiva, questo percorso sia pressoché simile in qualsiasi cultura, nella singolare Islanda come altrove. Ari si deve, infatti, confrontare e scontrare, nell’ordine: con l’abbandono della madre, con l’incapacità del padre di gestire una relazione genitore-figlio adeguata, con la difficoltosa integrazione nel nuovo gruppo di coetanei, con il primo soffocato e tormentato amore per la sua vecchia compagna di giochi Làra, con l’imbarazzo che accompagna le prime goffe esperienze sessuali. Ma il film narra anche di vicende scioccanti, non rilegate a eventi eccezionali, ma parte integrante della quotidianità di una comunità fragile, preda della solitudine e di episodi di violenza e abuso di alcool e droghe. Fatti che avvengono sempre alla luce del sole (non solo metaforicamente): uomini e donne, illuminati giorno e notte dalla pallida luce dell’estivo sole islandese ‒ non potendosi sottrarre ad essa raccogliendosi in spazi bui e nascosti per celare i loro segreti ‒ sono così incapaci di gestire adeguatamente le proprie emozioni e sentimenti e si sfogano in eccessi di violenza e abusi in pubblico (alla luce del sole appunto). Di fronte a questi avvenimenti, Ari dovrà così compiere una scelta fondamentale: conformarsi alle sbandate abitudini della gente del posto o, al contrario, cogliere e fare tesoro dei piccoli segni di bellezza che, nonostante tutto, albergano in ogni individuo che incontra sulla sua strada (il padre, la nonna, Làra).

Proposta al 40° Toronto Film Festival e presentata dall’Islanda agli Oscar 2017, la terza opera del regista originario di Reykjavik è, nelle sue parole, un’opera di realismo poetico, perché la vita non è mai bianca o nera, ma grigia, ed è un senso di realtà che deve emergere dal film ed essere percepito dal pubblico, ammorbidito però dalla bellezza e dall’estetica, sia tecnica che narrativa, rintracciabile in fondo in ogni quiete che segue la tempesta.

di Carolina Zimara

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