Dopo l’improvvisa morte del marito, Nawal (Mouna Hawa) si ritrova a gestire da sola la piccola figlia Nora e gli ingenti debiti del marito, mentre il cognato Rifqi (Hitham Omari) è desideroso di mettere le mani sulla sua casa. In Giordania, dove vige la Sharia, una donna non può infatti ereditare i beni del coniuge se non ha avuto con lui un figlio maschio: gli averi che non possono restare a lei diventano proprietà del parente maschio più stretto. Seppur messa alle strette, Nawal non si dà per vinta, e decide così di dichiarare una falsa gravidanza.
Inshallah a Boy, primo film giordano presentato al Festival di Cannes, è anche il primo lungometraggio del regista Amjad Al Rasheed, e il suo esordio è tra quelli da ricordare. Il ritratto della società patriarcale araba e della sottomissione delle donne fa da sfondo a una storia che si avvale di una notevole caratterizzazione dei personaggi e di un lavoro sulla messa in scena.
Sul solco dell’iraniano Leila e i suoi fratelli, Inshallah a Boy presenta una protagonista resiliente e indomita. L’atteggiamento di Nawal (ben espresso dalla sua interprete Mouna Hawa) sorprende e coinvolge: nella prima scena è lei a proporre al marito un rapporto sessuale, primo segnale del suo tentativo di revisione dei rapporti di forza consolidati. Nella sua lotta, sarà inoltre aiutata da Lauren, nipote della signora a cui fa da badante, che decide di non accettare una gravidanza indesiderata e un marito traditore. Una galleria variopinta di figure per portare avanti un forte discorso di denuncia, trasmesso soprattutto attraverso immagini pregne di significato. Il film si apre con il dettaglio di un corsetto che cade per strada dall’inferriata del balcone, sfuggendo al tentativo della donna di raccoglierlo e prefigurando così il suo percorso di emancipazione.
La macchina da presa segue i personaggi nella loro quotidianità, spesso vicino ai loro volti; altre volte mostra Nawal a distanza dal ciglio della porta o inserendo un elemento di disturbo nell’inquadratura, raffigurando visivamente il senso di oppressione costante che prova. A livello narrativo, è poi peculiare come il dramma sociale sia inserito in una confezione da teso thriller. L’intreccio propone una serie di svolte e colpi di scena dall’inizio alla fine, mantenendo un perfetto equilibrio tra le due dimensioni, senza mai scadere nella mera cronaca da un lato né nell’artificioso dall’altro. Il tutto con il coraggio non da poco di non cedere al cupo pessimismo, ma di lasciar intravedere, nella conclusione, una flebile luce di speranza.
Luca Sottimano