
«Io ne ho viste cose che voi non potreste immaginarvi:
uomini nascere dalla pancia di un cavallo;
navi da combattimento in fiamme al largo della rocca di Ilio;
mostri marini ingoiare acqua e vomitare tempesta.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire»
C’è, in questo grumo di visionarie parole (raccolte da “Blade Runner/Ridley Scott – 1982”, e poi rielaborate per il nostro Odisseo), il senso più profondo del pensiero di Ugo Foscolo quando intuisce, e afferma, che l’unica forma di immortalità che esiste per certa è quella di essere ricordati da coloro che ci sopravvivono.
A partire da questa possibile verità, nasce la drammaturgia ispirata al distruttore di rocche venuto dalla pancia di un cavallo e prende forma il primo quadro, il primo canto di questo nostro ultimo lavoro ispirato all’Odissea. Al viaggio. Al ritorno.
Un uomo contempla, tra le fiamme del suo inferno interiore, le fiamme appiccate a Troia prima di poter iniziare il suo viaggio di ritorno verso la casa del padre. Un viaggio che viene riconsegnato al mondo come fosse una confessione sul letto di morte. E sono immagini che sbandano, istantanee estratte dalla memoria del quotidiano, “frammenti del reale” che si fanno emorragia di ricordi che impregna la vela di una ipotetica zattera intenta a solcare le onde dell’ultimo viaggio. Un viaggio che si fa canto funebre per un cigno nero morente: Odisseo;
Nello stesso luogo, dietro lo stesso tulle, un secondo canto, quello di una Penelope impigliata nel limbo di un’attesa irrisolvibile.
Io non so di viaggi, non so di mare
Non so di avventure, di eroi, di guerre, di terre lontane
Neanche vicine
Però so aspettare

Otto quadri (otto “tele”) introdotti e conclusi da un prologo e da un epilogo. Un monologo che scaturisce dalla condizione dell’attesa in senso più assoluto.
Sulla spiaggia di una possibile Itaca, Penelope sceglie di non cristallizzarsi nell’immobilità di quell’irrisolvibile condizione, e crea la propria odissea.
Otto quadri, otto tele, otto donne diverse, scaturite da una stessa matrice, vengono ricamate – e tessute con la luce – su un tulle che si fa telaio e schermo insieme. Si fa barriera ma anche superficie su cui inventare una storia. Su cui tesserla; e darle vita. Si fa luogo in cui il sogno diventa reale. E il reale si addormenta per lasciare posto al sogno.
Una Penelope sdoppiata, dunque:
– una, in carne e ossa, osserva l’orizzonte del mare che ha inghiottito il suo uomo, e sceglie di addormentarsi;
– l’altra, come un ologramma (una sorta di doppio eterico), si solleva da quella spiaggia, da quel torpore del tutto simile alla morte, e osa frequentare il cielo di sopra, e vive.
Un monologo che consente all’attrice di farsi Penelope capace di interagire con l’immagine di sé, di reinventarla, di farla immagine concreta che sfida, e risolve, la sorte che le era stata destinata.


Da una parte, dunque, la vita di chi non ha potuto accingersi materialmente a viverla (Penelope) e la sogna così forte da trasformarla in una possibile altra vita che esiste anche solo per il fatto che è stata sognata (“nelle tele di Penelope”).
Dall’altra, una vita vissuta (quella di Odisseo), ma che rischia di andare perduta (“come lacrime nella pioggia”) se non verrà ricordata dai viventi che le sopravviveranno.
Appuntamento a Itaca è il luogo in cui queste due drammaturgie si incontrano condividendo lo stesso spazio nello stesso tempo: un palcoscenico che, per l’occasione, si fa naturale approdo di un percorso durato oltre due anni.
Un percorso che è diventato progetto condiviso su cui due compagnie teatrali hanno investito importanti risorse (e non solo economiche) e che intende concludersi su di “una spiaggia” a cui tornare, e a tempo stesso da cui poter ripartire.
Per Odisseo e per Penelope, una spiaggia in cui pensare di potersi trovare anche solo un attimo, ed è già tempo di morire.
Per Replicante teatro e framedivision, una spiaggia in cui teatro e cinema si sono dati appuntamento così come i due attori/autori.