La classe seconda 1 del liceo Leon Blum di Créteil è reputata insubordinata ed incontrollabile, formata da studenti indisciplinati e poco propensi all’apprendimento. Tale giudizio è condiviso dalla quasi totalità del corpo insegnanti; tra di loro vi è tuttavia la professoressa Gueguen, insegnante da ormai vent’anni, che invece di abbandonare i ragazzi al loro destino cerca un approccio diverso per poterli stimolare, invitandoli a partecipare a un concorso nazionale in ricordo della Resistenza e della deportazione degli ebrei. Seppur in un primo momento reticenti, gli studenti, col passare del tempo, forti della fiducia riposta in loro dalla professoressa, si impegnano e riescono finalmente a lavorare insieme per creare un progetto comune, anche se dopo non poche difficoltà.
Il sistema scolastico francese, per far fronte all’alto numero di studenti, prevede la divisione in classi in base ad un test iniziale. Questo fa sì che in ogni scuola si venga a creare una classe di “emarginati”, in cui vengono raggruppati i ragazzi dai quali il sistema non si aspetta nulla e che rallenterebbero solo gli studenti più meritevoli. Gli allievi, consapevoli del giudizio insindacabile espresso nei loro confronti, non fanno allora più alcuno sforzo, convinti che sarebbe comunque inutile.
Malik, Max, Mélanie e Yvette si ritrovano in quella classe, insieme a tanti altri ragazzi con i quali hanno in comune solo l’etichetta di “senza speranza”; ognuno di loro, poi, nella moltitudine di religioni, culture ed estrazioni sociali presenti nel loro gruppo, si è già inconsapevolmente adeguato ad altri stereotipi per potersi conformare a quella che vivono come la propria categoria di appartenenza. La ragazza musulmana accetta di vestirsi in maniera più appropriata dopo le pesanti minacce di un compagno, la ragazza tosta della banlieue si adegua ad essere nient’altro che una ribelle che odia la scuola e rifiuta ogni tentativo di cambiamento, il neoconvertito all’islamismo cambia guardaroba e vocabolario per fare sfoggio dall’appartenenza a una nuova comunità. La continua insistenza per tutto l’arco del film su questi aspetti minimi, mette in luce come l’intenzione della regista non fosse quella di raccontare ancora una volta la storia della Shoah, quanto piuttosto quella di far capire come gli stereotipi e il razzismo siano ancora ben presenti nella società contemporanea. L’abbigliamento, in particolare, da possibile segno distintivo della personalità individuale, diventa una metafora di un sistema ottuso e sordo. Se gli ebrei venivano uccisi nudi, tutti insieme, privati della loro singolarità, i ragazzi di oggi vengono paradossalmente vestiti per essere uniformati alla massa.
Una volta nella vita è tratto da una storia vera e la sceneggiatura è firmata da uno degli studenti di quella stessa classe, Ahmed Dramé, che recita anche nel film nel ruolo di Malik. Per quanto il film presenti alcune carenze stilistiche e un approccio semplicistico allo sviluppo della narrazione, è certamente riuscito a sollevare diversi interrogativi, creando un parallelo interessante tra un razzismo “storico”, condannato da tutti e ricordato ogni anno con celebrazioni in tutto il mondo e un altro razzismo, latente e subdolo, che invece ci ostiniamo a fingere di non vedere.
di Alessia Gasparella