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Il paradiso probabilmente – Elia Suleiman

In “Questione di sguardi”, del critico d’arte John Berger – autore peraltro di numerosi film di Alain Tanner -, l’atto del guardare diventa strumento fondamentale per l’analisi della realtà che ci circonda. Da questa intuizione parte Elia Suleiman che, non a caso, dedica a Berger il suo sesto lungometraggio premiato al Festival di Cannes 2019 con una menzione speciale della giuria.

N e Il paradiso probabilmente vediamo il regista compiere un viaggio alla ricerca di finanziamenti per un nuovo progetto cinematografico, viaggio che si rivela un’occasione per osservare contraddizioni e bizzarrie del nostro tempo. Partendo dalla sua casa in Palestina, dove il vicino insidia ripetutamente il suo rigoglioso albero di limoni, Suleiman passa per una Parigi deserta abitata solo da carri armati, poliziotti in rollerblade e turisti giapponesi, per arrivare ad una New York presa nella stretta di agenti che si muovono con coordinazione quasi da balletto. In un crescendo sottile notiamo come, spostandosi verso ovest, paradossalmente la presenza delle armi raggiunga aspetti quasi surreali.

Moderno Keaton, Tati contemporaneo, il regista si muove leggero in ogni situazione con il suo capello di paglia e lo sguardo fisso, registrando le situazioni e lasciando che siano soprattutto i suoni e i rumori a parlare. Non c’è apparente trama, ma un’intenzione allegorica di mostrare l’oggi in tutta la sua inconsapevole comicità fatta di stereotipi e individualismi. Esempio perfetto è la frase che il regista si sente rivolgere, nonostante l’intervento dell’attore Gael García Bernal, da parte di produttori americani: il suo progetto di una commedia sulla pace in Medio Oriente viene liquidato con un “E’ già abbastanza divertente così”.

Il cinema di Suleiman è garbato ed intelligente, sa far riflettere lasciando estrema libertà di interpretazione allo spettatore. Il paradiso probabilmente si inserisce alla perfezione nella particolare filmografia di Suleiman, regista atipico, autore fuori dagli schemi, palestinese sui generis – in quanto cristiano-ortodosso in una comunità a maggioranza islamica -, che ha sempre cercato di raccontare e raccontarsi preferendo alla drammatica spettacolarizzazione la leggerezza profonda. E la poesia. Come nella meravigliosa sequenza in cui una ragazza con la bandiera palestinese dipinta sul corpo e le ali d’angelo cerca la propria libertà a Central Park, mentre agenti di polizia tentano di bloccarne il volo.

Marco Mastino

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