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Jersey Boys

Non si può che rimanere stupiti di fronte alla poliedricità di un regista come Clint Eastwood: non c’è genere che, negli ultimi vent’anni, non abbia esplorato, con risultati quasi sempre all’altezza delle aspettative. Con Jersey Boys, l’ormai ottantaquattrenne californiano torna a confrontarsi, dopo Honkytonk Man e Bird, con il mondo della musica, raccontando l’ascesa e il declino di Frankie Valli e dei suoi Four Seasons, quartetto rock/doo-wop degli anni ’60.

Il film, adattamento dell’omonimo musical, è un classico biopic: racconta la storia di quattro ragazzi italo-americani del New Jersey che, oscillando tra vita di strada e passione per la musica, riescono a realizzare il loro sogno, trovando un etichetta discografica e diventando ricchi e famosi.

Eastwood dissemina elegantemente alcuni tocchi di classe: sceglie di far introdurre molte sequenze agli stessi personaggi, che si rivolgono così direttamente allo spettatore; riprende, in digitale, il leggendario Brill Building, lasciando intravedere ad ogni piano un diverso astro nascente del pop; cita se stesso ne Gli uomini della prateria.

Il film soffre tuttavia di una certa ordinarietà della messa in scena: il regista, fin troppo rispettoso dello script, non entra davvero nella storia. Per questo motivo, il film denuncia una certa prolissità: se in molti punti si respirano le atmosfere tipiche della parabola scorsesiana – personaggi incontenibili, grandezza tragica, moralità ambigua – mancano però trovate visive che accompagnino adeguatamente le vicende.

Eastwood tenta tuttavia di impostare un discorso sociologico, analizzando il rapporto tra contesto sociale e scelte individuali: se la band si allontana geograficamente dall’ambiente criminale nel quale è cresciuta, tuttavia questi legami risultano inestirpabili. Tranne Bob, il tastierista e compositore, i tre Four Seasons continuano a ragionare e comportarsi come fossero ancora dentro al “quartiere”, tra boss, regolamenti di conti e debiti. Il film sembra dirci che il contesto entro il quale nasciamo finirà inevitabilmente per condizionare tutto il resto della nostra esistenza.

Jersey Boys mette poi in luce un’America da noi poco raccontata: quella dei quiz televisivi, del sottobosco nazional-popolare, delle mega-ville e degli spettacoli kitsch con lustrini, mondo capace di produrre hit memorabili come “Can’t take my eyes off you”, cantata per la prima volta proprio da Frankie Valli. In questo senso il film si richiama esplicitamente a Dietro i Candelabri, opera di Soderbergh dedicata a Liberace, pianista che si muove negli stessi anni e nello stesso ambiente dei Four Seasons, condividendone talento, eccessi, fama di ricchezze e successi.

Film minore all’interno della pluripremiata carriera di Eastwood, Jersey Boys è senza dubbio un’opera piacevole che, pur senza stupire dal punto di vista della messa in scena, lascia ampio spazio alla musica dei Four Seasons, gettando luce su una parte molto importante della cultura americana contemporanea.

Giulio Piatti

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