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Locke_3

Locke

Questa storia dal sapore amaro mette in scena la tormentata e fatidica notte d’un fidato e stimato capocantiere inglese, Ivan Locke, che a seguito d’una telefonata tanto inaspettata quanto temuta, decide di cambiare repentinamente destinazione per recarsi al cospetto del suo destino, incerto ed infelice ma ineluttabile. Il film è la rappresentazione di questo complesso e faticoso percorso, tuttavia improvviso e fulmineo nei suoi rivolgimenti, nel concatenarsi sistematico di contingenze e complicanze, che sfidano incessantemente la pazienza e l’equilibrio di questo solido uomo. Il lento e irrimediabile disgregarsi della sua esistenza è raccontato, infatti, con la calma irritante e un po’ perversa che la vita sembra sempre adoperare quando vuole farsi gioco di noi. I passaggi narrativi, che compongono questa vicenda, sono ostacoli cadenzati e proposti con sapienza attraverso un efficace stillicidio di emozioni e sentimenti, volti a comporre – con gradualità – lo spessore psicologico dei personaggi. Quest’affermazione potrebbe far incappare in una semplificazione o addirittura in un errore nel giudizio critico dell’opera. In altre parole, sbaglierebbe chi volesse connotare questo film attribuendogli l’aggettivo, peraltro ambiguo in sé, di psicologico. Esso in effetti sembra mancare, del tutto consapevolmente, di quelle atmosfere – a volte anche decisamente banali, rarefatte e oniriche – che caratterizzano certe produzioni su cui si costruisce il loro successo. Locke mette volentieri da parte i logoranti sguardi introspettivi e i debordanti vaniloqui interiori (che resi in maniera filmica corrono a volte il rischio di assomigliare più ad un erroneo fermo immagine). Il film rifiuta quella cinesica “da internati” – che tanto cinema usa – per rappresentare l’esperienza di forti emozioni, evitando qualsiasi ammiccamento a stilemi intimisti, versione da seduta psicoanalitica.

Un realismo schietto, a tratti anche impietoso, fa da modulatore alla narrazione, limitandosi a registrare quasi come un sismografo, l’andamento emotivo del protagonista e di chi parla con lui. Con un crescendo regolare e composto, sebbene non arrivi mai al proprio acme e non superi il punto di non ritorno (che verrebbe anche a coincidere con il ritorno alla vecchia strada di casa), il personaggio si trova impedito e schiacciato dal peso opprimente della cruda realtà che l’ha costretto su quella macchina, verso quella destinazione. Tutto questo magistrale equilibrio sembra però rivelare il suo limite intrinseco nel finale: il realismo non basta più a se stesso, i suoi meccanismi gli si ritorcono fatalmente contro, creando un effetto persino più crudo e deludente della realtà stessa. Lo spazio e il vuoto lasciati risultano troppo vasti per essere colmati e apprezzati dall’occhio interpretante dello spettatore, che non comprende fino in fondo quest’epilogo affrettato. Una fine improvvisata, dove tutta la densità della storia viene lasciata scivolare, si disfa in un istante, sulla vitrea superficie del caso.

Enrico Zimara

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