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Magic in the moonlight – Woody Allen

 

Poster-art-for-Magic-in-the-Moonlight_event_mainFin dalle primissime battute del film, ci rendiamo immediatamente conto che quello che ci verrà richiesto non sarà solo la visione di un’opera cinematografica bensì una vera e propria immersione in un mondo “altro”, fatto di magia, d’amore e di illusione, temi peraltro da sempre carissimi al quasi ottantenne regista Woody Allen.

La scena si apre al Berliner Theater negli anni venti, dove assistiamo ad uno spettacolo del famoso mago cinese Wei Ling Soo, interpretato con sofisticata ironia da Colin Firth. Con estrema maestria registica e grazie soprattutto al contributo della straordinaria fotografia di Darius Khondji, Allen ci trasforma – in un attimo – da spettatori cinematografici in pubblico teatrale berlinese che, incredulo, assiste alle prodezze dell’abile mago dalla sparizione di un elefante sul palcoscenico al teletrasporto umano. Veniamo così introdotti con garbo in un mondo di magiche illusioni, messo in parallelo dal regista con un altro universo magico per eccellenza che è quello del cinema, proseguendo sulla riflessione meta-cinematografica, spesso centrale in molte sue opere._TFJ0117.NEF

La contrapposizione tra “vita reale” e “vita illusoria” permane in tutto il film e ne è il tema centrale. Wei Ling Soo viene infatti ingaggiato da un amico mago per smascherare una presunta medium, interpretata dalla luminosa Emma Stone. Le illusioni che si susseguono sullo schermo sono le immagini del colorato e surreale paesaggio del Sud della Francia, dei vecchi giochi di prestigio, della fiabesca ambientazione dell’osservatorio astronomico, dell’aria opaca dei temporali estivi e delle note di jazz che aleggiano ripetutamente nell’aria. Ma soprattutto il tema del soprannaturale corrisponde al tema amoroso perché il film è innanzitutto un film d’amore, una “comédie au champagne” in piena regola, dove lui e lei si conoscono, si detestano e poi finiscono col capitolare l’uno nelle braccia dell’altro.

magic-moonlight-6Accolto tiepidamente dalla critica e considerato un’opera minore nella vastissima filmografia del regista (come peraltro tutti i film appartenenti al filone magico, da La maledizione dello scorpione di Giada a Scoop), la pellicola ha però quell’ormai classico, inconfondibile sapore alleniano che ritroveranno con piacere i vecchi come i nuovi ammiratori. Perché quello che Woody Allen sembra volerci dire è che il suo lavoro è un unico grande film, con le ormai solite citazioni e autocitazioni, i cast affollatissimi sempre in ordine alfabetico, gli standard jazz e il lettering bianco su fondo nero dei titoli di testa che è forse proprio quello che lo spettatore si aspetta da lui e che, anno dopo anno, vuole puntualmente vedere e assaporare. D’altra parte, l’artista stesso ha dichiarato che non fa film per aspirare alla perfezione o per darsi delle risposte, ma anzi per continuare a porsi delle domande, per tenersi occupato, per sopravvivere; egli fa film perché se no ne morirebbe. E a noi non resta che ringraziare e andare a vedere il suo ultimo film.

Carolina Zimara

 

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