Stanza, letto, armadio, specchio. E ancora: tavolo, sedia, lampada, tappeto e lucernario. Non semplici nomi comuni di cose per il piccolo Jack, ma oggetti personificati protagonisti del suo mondo: la Stanza (per nulla claustrofobica nonostante le ridotte dimensioni) è fondata su un’enorme bugia, elaborata da Ma’ al fine di preservare il suo bambino dalle sofferenze legate alla consapevolezza della prigionia. La storia raccontata nell’ultimo acclamato film del regista irlandese Lenny Abrahamson, valida trasposizione cinematografica del romanzo di Emma Donoghue, alla quale è stata affidata la sceneggiatura di Room, potrebbe essere narrata da differenti angolazioni (a seconda di come la si osserva: con gli occhi spenti e persi di Ma’ Joy per gran parte del film; con i blandi e quasi incomprensibili apparenti barlumi di umanità del sequestratore Old Nick; con lo sguardo dei genitori della ragazza che ritrovano una figlia inevitabilmente persa per sempre). Il punto di vista privilegiato, sul quale si sorregge tutto l’apparato narrativo, è quello del bambino che, attraverso le riflessioni e i racconti in prima persona, innesca nello spettatore un inevitabile processo di immedesimazione. Un senso di straniamento e di rifiuto lo invadono nel momento in cui un’esasperata Ma’ gli svela la dura verità mentre il bimbo si ostina ad invocare “una storia diversa”.
Abbandonati i racconti fantastici (accenni ad Alice nel paese delle meraviglie e Il Conte di Montecristo) e smentita la finta realtà – animata da serpenti di uova e labirinti che nascondono le cose, – attraverso una morte simulata, la madre avrà l’occasione di donare, per la seconda volta, la vita al figlio e lui, inconsapevolmente, la ridarà a lei. La scena in cui domina lo sguardo rivolto al cielo azzurro dell’ormai libero Jack, incredulo e meravigliato, spaventato e incantato, strabiliato e quasi estatico, accompagnato da un crescendo di musica, è il climax del film, sia emotivamente sia narrativamente nonché lo spartiacque all’interno della vicenda tra il racconto del mondo dentro e fuori “stanza”. Comune denominatore di questi mondi: la potenza del rapporto nodale che intercorre tra una madre e suo figlio, garanzia di sopravvivenza prima, di fondamentale aiuto nel superamento degli sconvolgimenti emotivi poi, quando l’ingresso di Jack e il ritorno di Joy nel mondo reale costringeranno i due ad elaborare nuovi e articolati strumenti di difesa e adattamento.
Room è un film di persone che deve tanto alle interpretazioni autentiche e mai stonate di Brie Larson – vincitrice dell’Oscar come miglior attrice protagonista – e del giovanissimo e promettente Jacob Tremblay. È una storia in grado di arrivare empaticamente al cuore dello spettatore; un inno alla libertà, all’importanza di onorare le cose semplici della vita, riservando così il dovuto valore ad ogni singolo giorno.
di Loredana Iannizzi