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Roubaix, une lumière

Presentato in concorso al 72º Festival di Cannes – edizione ricca di alcune tra le opere cinematografiche più importanti del periodo pre-Covid – Roubaix, une lumière, film del francese Arnaud Desplechin, che ne cura regia e sceneggiatura, appare fin da subito come la rappresentazione umana della disperazione e del degrado. Il regista, conosciuto per la sua capacità di analizzare con eleganza la complessità dell’animo umano e dei sentimenti che lo tormentano, mette in campo un gruppo ben equilibrato di personaggi, capace di dare forma al vuoto di una cittadina post-industriale situata a Nord della Francia, al confine con il Belgio. Furto, stupro, incendio, vandalismo sono solo alcuni degli atti che portano lo spettatore ad assistere all’omicidio di un’anziana signora, strangolata nel proprio letto durante le festività natalizie.

Intenzionato a riportare un po’ di ordine nel girone dantesco della criminalità, vi è l’ispettore capo Daoud, perfettamente interpretato da Roschdy Zem: silenzioso, riflessivo, esperto conoscitore della città e dei suoi abitanti, Daoud, un passato da emigrante, è un uomo saggio che guarda con pietà questa Roubaix in declino. Al suo fianco, arriva Louis Coterelle, giovane volenteroso appena uscito dall’Accademia: a differenza di Daoud, quest’ultimo appare ancora acerbo nel percorso di emancipazione dal concetto di colpa ed è proprio il suo primo caso di omicidio a metterlo di fronte all’apparente mancanza di senso del male, offrendogli l’occasione per mettere in discussione dubbi e certezze. Come contrappunto ai due personaggi maschili, vi sono Marie e Claude, interpretata dalla perfetta Léa Seydoux, capace di restituire sullo schermo l’immagine di una vita ormai perduta, soffocante nella sua assenza di buoni propositi.

Grazie ad una fotografia studiata nel dettaglio, merito di Irina Lubtchansky, già collaboratrice di Desplechin in I fantasmi di Ismael e candidata al premio César per la miglior fotografia, Roubaix, une lumière si contraddistingue per la mancanza di luce e calore, complici la latitudine e la fredda stagione invernale. Il regista, dichiaratamente ispiratosi a Il ladro di Hitchcock, ricrea sullo schermo le atmosfere di Simenon, scegliendo il crime non come genere in cui ingabbiare il racconto, bensì come forma per indagare il comportamento umano e i sentimenti più bui.

Il film riporta lo spettatore ad una dimensione di sottile riflessione e composta ricercatezza testuale, in cui la caccia al colpevole appare sfumata, confusa con la più universale indagine dell’essere umano.

Valeria De Bacco

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