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Un divano a Tunisi

Con lo stile della commedia all’italiana e con la voce della cantante per eccellenza del Bel Paese, Mina, ad aprire e chiudere il film, Un divano a Tunisi (Un divan à Tunis il titolo originale) affronta tematiche serie e profonde con una satira delicata e con leggerezza, snocciolando una dopo l’altra gag e situazioni tragicomiche.

La trama è semplice: Selma, emigrata presto in Francia dalla Tunisia, dopo esser diventata una psicanalista decide, accompagnata dalla effigie di Sigmund Freud, di far ritorno al paese natio (scelta folle agli occhi di tutti) e dedicarsi alla sua professione. La donna compie il percorso inverso a quello cui ambiscono tante giovani figlie della primavera araba che sognano proprio Parigi come città in cui fuggire: dall’Europa e da uno stile di vita occidentale, verso un ritorno alle origini carico della speranza di fornire un supporto e un aiuto ai suoi connazionali affinché possano acquisire nuove consapevolezze e il coraggio di sganciarsi dai limiti culturali posti alla libertà personale. Si scontrerà però con un Paese che ancora fatica ad accettare cambiamenti e aperture. E non solo: anche con i limiti personali che, nonostante la sua professione, la colgono vittima di una visione spesso stereotipata e giudicante, nonché con situazioni familiari irrisolte e difficoltà a relazionarsi sentimentalmente. Situazioni intrise di pregiudizi, testimoni delle contraddizioni di una cultura a cavallo tra la tradizione e l’emancipazione.

I pazienti che, incuriositi dalla sua presenza carismatica ma fredda e seria allo stesso tempo, si alternano sul suo divano, consegnano storie universali e racconti di difficoltà quotidiane. Il film è un elogio della parola (“noi Arabi parliamo molto”): gli esuberanti e rumorosi personaggi che gravitano in tutti gli ambiti di vita della protagonista mostrano una grande esigenza di comunicare ed esprimere ciò che hanno dentro e Selma diviene attenta ascoltatrice (e per questo una rarità, quasi una “strega”) del loro bagaglio interiore. Il film è un’altalena continua di sottili rovesciamenti tra le parti (la parrucchiera, notoriamente confessore delle donne nel suo salone, diverrà la prima paziente della terapeuta; Selma prenderà posto sul famoso divano del titolo durante i suoi momenti di debolezza di fronte al poliziotto verso cui c’è una latente ma contraddittoria attrazione). Sparse, le citazioni delle tematiche care al discorso psicoanalitico, come quella della figura materna o dell’orientamento sessuale.

Tra una fotografia che offre un’immagine della periferia di Tunisi dinamica, luminosa e colorata, e una sceneggiatura dai dialoghi serrati (in francese intermezzato qua e là da frasi ed espressioni in arabo, nella versione in lingua originale), si alternano momenti di amara malinconia. La regista Manele Labidi, nata in Francia ma di origine tunisina, sceglie di esordire sul grande schermo con un’attrice iraniana naturalizzata francese e una storia dal sapore marcatamente autobiografico: il cinema come (auto)terapia.

Loredana Iannizzi

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