Una donna scompare nel giorno del suo quinto anniversario di matrimonio. Si pensa a un rapimento o a un omicidio. Ogni indizio porta alla colpevolezza del marito che è distante, con problemi economici, e la possibile assicurazione della consorte da incassare. Eppure il suo atteggiamento impacciato ci convince del contrario. Nella tranquilla vita del Missouri, David Fincher celebra il suo nuovo film, incentrato sulla crisi americana. Dopo la caduta del mito della felicità e la recessione economica, resta solo una speranza: il matrimonio come status sociale e individuale e l’equilibrio sentimentale. Ma il decadimento non conosce confini e Gillian Flynn, autrice del romanzo e della sceneggiatura, fotografa quasi con sadico compiacimento la distruzione dell’unione fra marito e moglie.
Il meccanismo che la scrittrice utilizza è quello del macguffin hitchcockiano, il portare lo spettatore in una direzione, per poi sorprenderlo e farlo deviare da tutt’altra parte. Se si vuole però rendere credibile un personaggio, bisognerebbe che la sua psicologia si basi su esperienze vissute o su ricerche, ma le presunte violenze subite da Amy sono poco credibili e dunque l’effetto sorpresa decade. Sullo schermo, invece, Fincher riesce meglio nell’intento, con immagini frammentate e un montaggio che cambia seguendo il doppio registro narrativo di Amy e di Nick. Negli anni, tra Fight Club, Zodiac e The Social Network, il cineasta è diventato abile nel mettere in scena qualcosa, per poi rimetterlo in discussione, fino a capovolgerne il senso lungo il corso della narrazione, lasciando lo spettatore pieno di incertezze.
L’amore bugiardo sembra un thriller classico, fatto di rivelazioni che vengono alla luce poco a poco, una scomparsa su cui indagare e una verità definitiva da accertare, ma successivamente il racconto, mischiando toni cupi e accenni grotteschi, si sdoppia: al giallo, incentrato sui sospetti di colpevolezza del marito fedifrago, si affianca la voce fuori campo della moglie. Una ragazza cresciuta con due genitori da cartolina, con la vita data in pasto al pubblico, le aspettative sempre molto al di sopra di ogni umanità, la fanno diventare inevitabilmente una drama queen. Una grande prova di Rosamund Pike, donna bionda e algida alla Hitchcock, in grado di modificarsi nel look e nell’espressività, dando corpo alla mutevole personalità di Amy.
Il racconto di Fincher è tentacolare e labirintico: si passa dalla potenza dei media nei fatti di cronaca nera provinciale all’intervento della legge americana, desiderosa di correre a conclusioni affrettate, per mettere in scena il sentimento di ipocrisia che tiene vivo il matrimonio, come centro sia di interessi terreni sia di necessità sessuali e patrimoniali. Verso la fine, il plot si perde fra troppi sentieri aperti, ma riusciamo a intravedere il talento di un regista ambizioso che, pur parlando a un vasto pubblico, non rinuncia a un suo personale ragionamento sulle possibilità più recondite della narrazione cinematografica.
Alexine Dayné