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Au nom de la Terre

È il 1979 e Pierre Jarjeau, in sella alla sua moto, ritorna nella proprietà di famiglia, in Francia, dopo aver svolto un’esperienza lavorativa nel Wyoming. Il sorriso della fidanzata e le note allegre della canzone nel mangianastri non gli bastano per sentirsi a casa: il giovane ha intenzione di sposarsi e occuparsi della fattoria dei genitori. Dopo anni di sacrifici e sudore, però, il padre di Pierre sembra essersi indurito dimostrandosi poco incline alla cessione degli appezzamenti di terra lavorati, dei quali vorrà, nel tempo, un regolare affitto. Gli anni passano e la scena ci propone un Pierre stempiato e ingrigito al quale non manca, tuttavia, la grinta di chi è pronto ad adeguarsi ai cambiamenti tecnologici che investono il settore agricolo e zootecnico. Non rispecchiandosi nella figura autoritaria e burbera del padre, Pierre si prodiga per curare i personali legami affettivi e rincorre le novità come autentiche chimere.

Oltre ad una moglie presente e attivamente coinvolta nei compiti dell’azienda, nella vita familiare del protagonista vi sono anche i figli Thomas ed Emma, che lo supportano nelle attività necessarie per gestire le incombenze quotidiane alla fattoria. Per quanto i ragazzi siano cresciuti con la fortuna di coloro vivono in un contesto bucolico e genuino, sono d’altro canto tenuti a farsi carico delle responsabilità di chi è a contatto con gli animali e ne conosce non solo le necessità, ma anche i ritmi ripetitivi della cura che questi ultimi ogni giorno richiedono.

Nonostante l’impegno di Pierre, il lavoro intenso non porta tuttavia i frutti sperati: per questa ragione, i parenti e i collaboratori si ritrovano ad affrontare numerose difficoltà mentre i debiti si accumulano, i nervi saltano e la narrazione si complica. Un episodio, in particolare, segna il punto di rottura tra i sogni di un’intera esistenza e il peso della realtà tangibile dei fatti, in un orizzonte che purtroppo è condiviso da molti altri allevatori della Regione.

Il film di Edouard Bergeon, partendo da eventi autobiografici, spinge lo spettatore a riflettere sulla vita faticosa di chi è legato, anche dal un punto di vista socio-culturale, a quella stessa Terra che sa essere al tempo stesso feconda e spietata, impassibile di fronte allo sforzo quanto portatrice di colori e sapori, storia e tradizione. Il regista racconta una Francia rurale, non distante dalla nostra realtà, fatta di uomini e donne che lavorano, con fatica e devozione, in un ambiente che può tradirli. L’opera ha ricevuto diverse candidature al Premio César 2020, tra cui quella al miglior film d’esordio e al migliore attore emergente a Anthony Bajon, oltre al premio César del pubblico.

Eleonora Bonadé

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