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Belfast

Belfast

“Per chi è rimasto, per chi se n’è andato, per chi si è perso”; ma anche per gli altri, per coloro che non hanno vissuto in prima persona i Troubles (il conflitto nordirlandese scoppiato tra unionisti protestanti e repubblicani cattolici nel 1968 e protrattosi per circa trent’anni, non ancora del tutto concluso); e per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di non trovarsi nel bel mezzo di un conflitto civile. Ecco perché Belfast è un film destinato al grande pubblico e dai più apprezzato. È la storia di un Paese, di una città, di un quartiere, di una famiglia, di un bambino. Come una matriosca, il film contiene e svela livelli della narrazione sempre più intimi e ravvicinati, fino alle inquadrature strette sullo sguardo dei protagonisti, primo fra tutti quello di Buddy, piccolo alter ego del regista Kenneth Branagh. Sì, perché l’autore, nonché direttore del lungometraggio, ha preso spunto dalla propria infanzia e dai racconti di altri che hanno vissuto come lui quegli anni e provato la difficoltà derivante dal trovarsi costretti a scegliere tra lasciare la propria casa o vivere costantemente in pericolo, in un clima di guerriglia. Agli attori principali, tutti irlandesi o originari dell’isola a ovest del Regno Unito, è stata concessa un’interpretazione in molti casi improvvisata, ispirata dalle proprie storie personali. Attraverso l’innocenza e il candore di Buddy, alle prese con la prima cotta, l’attrazione nei confronti delle arti sceniche e il sogno di diventare un calciatore (il giovane Jude Hill ha dichiarato, scherzosamente, di aver faticato, da tifoso del Liverpool, a interpretare un supporter della squadra del Tottenham), Branagh è in grado di mostrare con il suo inconfondibile stile pulito, delicato ed elegante la follia che si cela dietro un incomprensibile conflitto che distrugge la pacifica convivenza di una comunità dove, al di là del credo religioso, tutti si sentono parte di un’unica famiglia.

Il ruolo dei “grandi” è fondamentale per la formazione di Buddy. In particolare i nonni infondono tranquillità e supportano con ironia e leggerezza il bambino alle prese con i primi grandi interrogativi e turbamenti della vita.

L’opera di Branagh tocca il cuore di tutti perché narra di vicende universali e di umanità. Non c’è una trama intricata e complessa, a volte lo scorrere delle scene può anche risultare lento e alcuni passaggi quasi forzati. Le immagini in bianco e nero sono suggestive e nostalgiche, la fotografia è affidata ancora una volta, dopo quindici anni di collaborazioni, ad Haris Zambarloukos; la scelta del colore, o meglio di riservarne l’utilizzo solo per le immagini relative al presente o all’immaginario (stimolato e rappresentato dalle riprese al cinema o a teatro) è affascinante; la colonna sonora vivace irrompe, anche nei momenti di grande dolore, e per un attimo fa dimenticare i problemi trascinando i protagonisti, ed emotivamente anche lo spettatore, in canti e balli gioiosi.

Il bivio che Buddy disegna dopo aver assistito al sermone bacchettone del prete è una grande metafora e il film lo dimostra: è la vita stessa a essere un bivio continuo, ponendo costantemente di fronte all’inevitabile esigenza di compiere delle scelte che si tende a definire giuste o sbagliate, ma che sovente non sono nient’altro che scelte necessarie.

Loredana Iannizzi

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