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Empire of light

Chi ama il cinema, in tutti i suoi risvolti poetici e le sfaccettature sognanti, apprezzerà l’ultimo lavoro di Sam Mendes. Probabilmente non il lavoro migliore, non troppo acclamato dalla critica e non eccellente nella scrittura, al punto da farlo risultare spesso scontato e un po’ banale, nello sviluppo drammaturgico. Questi gli aspetti più contestabili. Per il resto, l’interpretazione straordinaria e commovente di Olivia Colman, personaggio ispirato alla madre del regista, la fotografia impeccabile e maestosa curata da Roger Deakins, una vera prova di competenza raffinata candidata agli ultimi Oscar, ma anche la delicatezza e la profondità delle tematiche affrontate nel film sono sicuramente i punti di forza di un’opera che vuole dichiaratamente omaggiare la settima arte.

La trama è nel complesso semplice: la storia di un amore in apparenza improbabile che sboccia in una cittadina costiera inglese, tra le mura di un vecchio cinema ormai non più sfavillante come un tempo, tra Hilary, una donna matura con disturbi depressivi, e Stephen, un giovane ragazzo originario di Trinidad aspirante studente in architettura. Il regista vorrebbe parlare di razzismo, del potere salvifico del cinema, della malattia mentale, ma inevitabilmente finisce per darne soltanto un accenno. Tra i protagonisti principali, il cinema, come luogo fisico e simbolico: è un rifugio per coloro che vi lavorano, è metafora, con il suo piano abbandonato e in rovina ma suggestivo e nostalgico, delle loro vite. Numerosi sono i momenti di meta-cinema, soprattutto grazie al proiezionista Norman, interpretato teneramente da Toby Jones, impegnato ancora con le pellicole, “fotogrammi statici con in mezzo il buio”, che realizzano la magia del cinema attraverso un fascio di luce e grazie ad un’illusione ottica. Il cinema si interseca continuamente e in vari modi nelle vite dei personaggi, dialogando con esse.

Il parallelismo tra il cinema e la vita è evidente nella scena in cui, durante la prima del film Momenti di gloria, con il famosissimo tema musicale Chariots of fire che risuona in sottofondo, Hilary, in fase di riacutizzazione dei disturbi psichici di cui soffre, vive, a sua volta, il suo momento di gloria, smascherando la condotta del direttore del cinema, interpretato da Colin Firth, che ha sempre approfittato della fragilità della donna.

La musica ha un ruolo primario nel film, con la colonna sonora originale composta dai premi Oscar Trent Reznor e Atticus Ross e con le canzoni di quegli anni, gli anni dell’adolescenza del regista. Importanti anche i riferimenti ai musicisti bianchi e neri influenzati dallo ska giamaicano e attivi, spesso gli uni accanto agli altri, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nel Regno Unito.

Il racconto, pur non dicendo né mostrando nulla di nuovo, è capace di emozionare, con i suoi ritmi lenti e le inquadrature che si soffermano sul Cinema Empire, mettendo in scena la semplicità e la bontà dei sentimenti di due outsiders che, osteggiati l’uno da una società in pieno tumulto e dai conflitti dilaganti e l’altra dai demoni interiori, si schierano a testa alta in difesa reciproca. È un racconto di formazione, di crescita e di ritorno alla vita, che regala allo spettatore cinefilo un viaggio malinconico all’insegna della nostalgia.

Loredana Iannizzi

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