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Hope

Se vi dicessero che, nella peggiore delle ipotesi, vi restano solo tre mesi da vivere, cosa fareste per riempire quel tempo prezioso? Quante cose vedreste sotto una luce diversa? Maria Sødahl non esita a chiedere senza mezze misure ai suoi spettatori di porsi questa domanda e di vivere insieme alla sua protagonista, Anja, i turbamenti e le emozioni che colgono chi si sente, in un certo senso, «condannato a morte». Ispirato alla storia autobiografica della regista, cui era stato diagnosticato un male incurabile, il film mette a nudo, in maniera tanto personale quanto incredibilmente universale, le dinamiche di una famiglia cui viene comunicata la morte imminente di un proprio membro. È l’antivigilia di Natale quando Anja viene a conoscenza del fatto che il tumore ai polmoni, rimosso l’anno precedente, si è evoluto in metastasi, colpendo il cervello, e obbligandola a sottoporsi d’urgenza a terapie farmacologiche e chirurgiche. Dal 23 dicembre al 2 gennaio, proviamo insieme ad Anja il bouleversement emotivo che la accompagna dapprima nella presa di coscienza del proprio destino, poi nell’accettazione dell’inevitabile e infine nella tenace speranza che, in uno di quei casi di successo che si contano sulle dita di una mano, possa rientrare anche lei.

La bravura di Sødahl, che con Hope scrive e dirige il suo secondo lungometraggio dopo Limbo, sta proprio nell’approfondire i diversi piani dell’esistenza, senza mai lasciarsi andare a eccessi di emotività o a una rappresentazione drammatica degli eventi: amicizia, maternità, famiglia e amore, tutto appare filtrato dalla lente della sobrietà, scelta che probabilmente la regista difende con convinzione, per prendere lei stessa le distanze dai fatti autobiografici narrati nell’opera. La morte che incombe sulla protagonista la obbliga a rinegoziare le sue relazioni umane e, in questa delicata situazione, anche l’amore con Tomas, a lungo trascurato, potrà forse tornare a nutrirsi di una nuova speranza. Presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival nel 2019 e, lo scorso anno, proposto anche in Europa nella sezione Panorama della Berlinale, il film ha ricevuto diversi riconoscimenti e candidature, dimostrando l’apprezzamento della critica verso un’opera certamente dolorosa, ma di grande impatto sul piano comunicativo, esaltato dallo stile asciutto della narrazione e dalla bravura dei suoi interpreti. “Questa è la mia storia, per come la ricordo” è l’incipit con cui Sødahl accoglie il pubblico e, al tempo stesso, consegna il testimone, affinché ciascuno di noi, immedesimandosi con i protagonisti, si ricordi che ogni istante della nostra esistenza è davvero unico e potrebbe essere l’ultimo. Non un messaggio di cupo pessimismo, ma un inno alla vita, schietto e sincero.

Valeria De Bacco

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