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Qualcosa di meraviglioso - LOCANDINA

Qualcosa di meraviglioso

Siamo nel Maggio 2011. Le sequenze brevi ma intense di sommosse locali accolgono lo spettatore nella cruda realtà di Fahim, un bambino bengalese di otto anni, costretto a fuggire insieme al padre, Nura, dal suo paese natale. Il sogno di diventare campione di scacchi e garantire così un nuovo futuro alla sua famiglia porterà il ragazzo in Francia dove, tra le sfide del sistema burocratico e attimi di apparente normalità, il giovane dovrà imparare a crescere e assumersi il ruolo a cui sembra destinato. 

Pierre-François Martin-Laval è il regista dell’intenso e delicato Qualcosa di Meraviglioso, adattamento del libro di Fahim Mohammad, scritto a sei mani in collaborazione con Sophie Le Callennes e Xavier Parmentier. La sceneggiatura rimane fedele allo spirito del racconto autobiografico e riesce a cogliere nel segno, regalando una riflessione del tutto attuale,  mai scontata, sulla realtà dei migranti in Europa. 

La Francia per Fahim è Zinedine Zidane, è il luogo in cui i sogni diventano possibili e dove la sua passione può finalmente diventare ambizione. La cruda realtà si palesa in poco tempo e le speranze diventano un fardello che incombe sulle spalle del padre e del giovane protagonista. Fahim si troverà costretto ad accettare la sua nuova vita e capirà ben presto come essere un campione non sia sufficiente in un mondo in cui innanzitutto conta il paese da cui si proviene e lo status sociale di appartenenza. Ad accompagnare il ragazzo in questo personalissimo percorso di formazione c’è la ferma guida del suo maestro, interpretato da un memorabile Gérard Depardieu che, con il suo stile inconfondibile, regala una performance riuscitissima nei panni del burbero e scontroso Sylvain Charpienter. 

Il ritmo incalzante del racconto e i movimenti di camera, lenti e accuratamente studiati, riescono a riproporre l’atmosfera familiare ed intima della vita di Fahim e fanno da sfondo alle sfide quotidiane a cui il giovane e il padre sono costretti. La regia si rifà al modello del documentario, stile a cui rimandano anche le scelte linguistiche, dei dialoghi in francese e bengalese, per porre ancora una volta l’attenzione su un’identità che si forgia a partire dalla commistione e dallo scontro di due culture. La telecamera è quindi testimone consapevole che si limita a raccontare, senza mai giudicare, una storia individuale che diventa collettiva. La sfida di Fahim è quindi una lotta contro le convenzioni locali, contro un sistema che sembra incoraggiare l’incomunicabilità tra due mondi simili, ma distanti, dove solo il sogno e la tenacia di un bambino possono cambiare le sorti di un destino già scritto.

 Francesca Ciaffi

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