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La terra promessa

La terra promessa

Nel periodo del cinema americano classico, ogni casa di produzione e di distribuzione si specializzava in alcuni generi o tipi di produzione e si sviluppava un proprio stile, vedi i musical della MGM. Oggi, i film si diramano in tante aree; a volte più evidenti, a volte con leggere sfumature. Questa condizione permette di trovare una via nuova, originale e coinvolgente. Anche quando si tratta di una storia “danese” che tratta il diciottesimo secolo e che è ispirata ad una storia vera.  Prima che i venti rivoluzionari iniziassero a far vacillare i palazzi del potere, la Danimarca era solida e reazionaria. Era una nazione in parte selvaggia, visto che i vari tentativi di bonifica della brughiera dello Jutland, opera desiderata dal re Federico V, si erano rivelati un fallimento.

E dunque passato e presente (contemporaneo) si fondono attraverso la narrazione e la tecnica cinematografica. E qui troviamo il dramma storico e in costume, già sperimentato da Arcel in Royal Affair nel 2012, ma anche il western, richiamato nelle immagini delle lande desolate e nel rapporto tra i personaggi e l’ambiente circostante, immortalati da un’eccellente fotografia. Il film accoglie anche la natura torbida e romantica della storia, che imprime un carattere all’insegna dell’edificazione familiare.

Bastarden – il titolo The Promised Land (tradotto letteralmente La terra promessa) – allarga la visuale al contesto ma fa perdere centralità al protagonista, dai natali non nobili. Il “bastardo” del titolo è il capitano in pensione Ludvig, che desidera un titolo nobiliare al punto tale da proporsi nella bonifica della brughiera. C’è una wilderness da conquistare, ci sono i “selvaggi” che vi vivono – e che hanno con loro una bambina rom – e che rappresentano una minaccia, c’è una natura da sottomettere per permettere l’accesso alla civiltà. Il film si muove su un duplice conflitto: quello di Kahlen con la natura incolta da un lato, e che vede contrapposto l’uomo invece alla nobiltà locale, incarnata da Schinkel, giovane che dopo la morte del padre si è fatto aggiungere un “De” davanti al cognome per aggiungere nobiltà alla nobiltà. 

Arcel apre a una società di figli senza padri, di unioni non riconosciute dalla chiesa, di lavoratori che non potrebbero lavorare per legge, di etnie che neanche sono riconosciute dalla suddetta legge, e possono essere trattate come carne da macello. Lì, tra i “bastardi”, Kahlen capisce di doversi posizionare, conscio di non poter far parte della società e neanche di poterla cambiare, e si può solo sperare di evitare la gogna o i lavori forzati.  Le atmosfere della brughiera sono aspre ma evocano poesia ed emozione. La sceneggiatura è calibrata e mai sovraccarica. Mads Mikkelsen è notevole, restituisce tanto la scorza inscalfibile quanto la sorprendente e commovente tenerezza dell’uomo. Bastarden è un racconto morale, crudao e doloroso, che nella sua esplicita brutalità riflette molto sul caos ferino e brutale cui è condannata l’esistenza umana quando si ritrova in balia delle forze accentratrici di un potere cieco e sordo a ogni empatia, umanità e principio di realtà.  

Alexine Dayné

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