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Un figlio

Mehdi M. Barsaoui approda alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia nel 2019, nella sezione Orizzonti, con il suo primo lungometraggio: dopo aver diretto tre cortometraggi ampiamente apprezzati nel circuito dei festival internazionali (Sideways, Bobby e We Are Just Fine Like This), grazie a Un figlio conquista nuovamente il favore della critica, che premia il protagonista, Sami Bouajila, con il premio per la migliore interpretazione maschile. Barsaoui si dimostra un regista sensibile, capace di interpretare la realtà del presente trasformandola in racconto, ma anche un abile sceneggiatore, con un senso acuto del ritmo e della narrazione. È l’estate del 2011 e la Tunisia è scossa dalla rivoluzione, mentre Fares, Meriem e il loro unico figlio di dieci anni Aziz intraprendono una vacanza nel sud del paese. Durante il viaggio, il piccolo viene colpito gravemente al fegato, a causa di un agguato armato che costringe la famiglia a ricoverarlo immediatamente in ospedale. L’urgenza del caso richiederebbe un trapianto nel più breve tempo possibile, per scongiurare la morte del bambino: emerge in questo modo un segreto a lungo tenuto nascosto, che metterà in crisi non solo la relazione coniugale, ma anche gli stereotipi culturali e religiosi di una società in profondo mutamento.

Barsaoui, attraverso la metafora della vita di coppia e delle sue difficoltà, porta alla luce le problematiche interne alla Tunisia, realizzando un thriller psicologico capace di approfondire più livelli del racconto. Attraverso il dramma umano e personale della coppia, obbligata a prendere coscienza del proprio passato, il regista analizza il ruolo della donna nella società e il valore assunto oggi dalla paternità, la tensione emergente tra il desiderio di affermare la propria libertà personale e le aspettative sociali che si riversano sull’individuo. Emerge, potente, il radicamento dei valori arabo-musulmani all’interno del contesto religioso e culturale tunisino, che concepisce la figura del padre come sacra, punisce l’adulterio, limita l’autoaffermazione della donna e non accetta il trapianto di organi. Come dimostrano Meriem e Fares, non è possibile guardare al futuro auspicando il rinnovamento del pensiero, se prima non si è fatta pace con il proprio passato, per quanto oscuro e pesante possa rivelarsi. A rendere il senso di claustrofobia e tormento interiore provato dai protagonisti, contribuisce la tecnica di ripresa utilizzata dal regista, che riesce a isolarli perseguitandoli con la videocamera. Costruire, o meglio, ricostruire non può essere possibile, sembra dire Barsaoui parafrasando Bacone, se prima non si è provveduto a distruggere i paradigmi e gli stigmi che qualsiasi società, dalla più estremista a quella maggiormente liberale, custodisce gelosamente, scrigno di certezze cui è sempre difficile rinunciare.

Valeria De Bacco

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