Camera a mano, piglio documentaristico, storie di confine e di identità: una parte consistente del cinema italiano contemporaneo – si potrebbero citare, su tutti, Andrea Segre e Alice Rohrwacher – sembra andare in una direzione precisa, e Vergine Giurata, di Laura Bispuri, tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dores, non sembra fare eccezione.
Siamo tra le montagne dell’Albania, in una comunità all’interno della quale si rispettano ciecamente le consuetudini prescritte dall’antico codice Kanun. Hana, orfana, viene adottata da una famiglia del posto. Manifestando sin da subito curiosità e predisposizione per attività rigidamente riservate ai maschi, decide di diventare una “vergine giurata”, ovvero una donna che, rinunciando alla propria sessualità, viene considerata a tutti gli effetti un uomo. Nel frattempo Lile, la sorella, scappa in Italia, per evitare un matrimonio combinato. Diversi anni più tardi, dopo la morte della madre, Hana bussa alla porta di Lile.
Il film possiede una struttura a flashback: accanto alle vicende italiane, riaffiorano attimi del duro passato comune alle due sorelle che, in una società rigidamente patriarcale, nella quale la donna non è più che una proprietà, si rifiutano di accettare, ognuno a proprio modo, un destino già scritto.
Ciò che colpisce, nel film, è sicuramente la calibrata capacità di narrare la vicenda, attraverso una scrittura che dà una giusta consistenza alla drammaticità degli eventi, senza mai farsi prolissa. La Bispuri spoglia infatti la vicenda da ogni retorica, mantenendo uno sguardo asciutto, lucido, che non ostenta i sentimenti, pur mettendoli sulla scena.
Dal punto di vista registico, oltre alla shaky cam, che dona al film un’evidente coloritura documentaristica, Vergine giurata evidenza un perfetto bilanciamento tra esigenze formali e necessità narrative. Le dure e potenti immagini della vita di montagna, le belle scene subacquee e la generale insistenza sulla corporeità non scadono mai in un vuoto formalismo, ma danno forma a un racconto solido, vivo. Al centro c’è il tema dell’identità, trattato non direttamente, con una condanna o una presa di posizione, ma esplorato in modo obliquo, incrociando le tematiche del genere, della sessualità e del nesso genetica-cultura a partire dalla concreta esperienza di Hana-Mark, splendida creatura androgina, interpretata da Alba Rohrwacher.
Vergine giurata non si esaurisce nel raccontare la storia di una violenza, di una castrazione identitaria a cui fa seguito una semplicistica “emancipazione”. Ciò che Hana-Mark scopre, incisa sulla sua pelle, è l’estraneità a un discorso binario, a una scelta di campo; è, in altri termini, una nuova, decisiva libertà, quella di “non essere per forza qualche cosa”. Fuori dalla gabbia dell’essere, si spalanca la forza di un divenire inarrestabile, così come lo ha inteso Gilles Deleuze: divenire-intenso, divenire-animale, divenire-impercettibile…
Giulio Piatti