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Il mio Godard

Parigi 1967. Jean-Luc Godard, fiore all’occhiello della Nouvelle Vague francese, sta girando La chinoise, la più politica delle sue opere, sul set della quale incontra l’attrice Anna Wiazemsky: più giovane di vent’anni, profondamente innamorata del regista, di lì a poco diventerà sua compagna anche nella vita privata. Il film, tuttavia, all’uscita nelle sale cinematografiche, non riceve l’apprezzamento né del pubblico, né tantomeno della critica, che accusa Godard di aver peccato di intellettualismo. La fredda accoglienza riservata al film infrange non solo le aspettative del suo ideatore, ma anche l’incantesimo che univa la coppia cinematografica più chiacchierata del periodo. All’alba del Maggio francese, la delusione porta infatti Godard a mettere in discussione il proprio modo di vedere le cose, trasformando radicalmente l’uomo e l’artista che fino a quel momento era stato. Questa fase fondamentale della sua vita viene narrata attraverso gli occhi di Anna, che racconta il passaggio di Godard da cineasta rivoluzionario, “Le redoutable”del titolo originale, a uomo politicamente impegnato, pronto a rinnegare le opere del proprio passato in favore di film dichiaratamente antiborghesi e collettivi.

In questo suo ultimo film, presentato in concorso al settantesimo Festival di Cannes, Michel Hazanavicius tenta di riprodurre nuovamente il paradigma impiegato nel precedente successo, The artist, rimodulandolo ora sugli stilemi godardiani. Il risultato, che prima mirava a rendere omaggio all’epoca d’oro del cinema muto, punta qui a realizzare una commedia biografica che si prenda gioco dell’enfant prodige del cinema francese, ridicolizzando tutti quegli aspetti del suo carattere che, dall’egocentrismo alla misoginia, Anna Wiazemsky ha esposto all’interno de Un an après, biografia in cui racconta il suo anno di vita insieme al regista.

Forse nel tentativo di trasporre fedelmente il testo da cui trae origine, Il mio Godard trasforma una delle figure cardine del cinema in una macchietta, abilmente interpretata da Louis Garrel, che anche in quest’opera dà prova di una grande coscienza tecnica, trasformando l’intero film in una parodia dell’immaginario godardiano stesso. Hazanavicius gioca con le tecniche sperimentate dal protagonista nei propri film, per riprodurre l’effetto straniante che in essi si deve alla specifica relazione tra suono e immagine, inserendo in alcuni tratti anche dei frammenti privi di verosimiglianza, tipici del cinema di Bernardo Bertolucci.

Ne Il mio Godard, nulla si dimostra celebrativo nei confronti della volontà che animava la Nouvelle Vague di rompere con la tradizione del passato, anzi. Con questo film, il regista si impegna ad utilizzare le formule di quella specifica grammatica per restituire un’immagine del suo più celebre studioso ironica e persino un po’ buffa, che, se da un lato può far riflettere sulla leggenda godardiana e sinceramente sorridere, dall’altro si appresta a conquistare le più acerbe antipatie cinefile di chi, quel mito ribelle, non smette di amarlo.

Valeria De Bacco

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